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L’arte in Israele: resilienza e dialogo in tempo di conflitto

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  • 3 giorni fa
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 1 giorno fa


What If Women Ruled the World, Judy Chicago, Tel Aviv Museum of Art
What If Women Ruled the World, Judy Chicago, Tel Aviv Museum of Art

Nel 2025 la scena artistica in Israele ha sviluppato uno dei discorsi culturali più coerenti e articolati degli ultimi anni, nonostante l’instabilità politica e la saturazione simbolica. L’arte non si è limitata a commentare la cronaca né a offrire evasione: si è configurata come campo di riflessione permanente, capace di intrecciare genere, identità, memoria e responsabilità senza ridurli a semplici categorie operative. Le mostre dell’anno non si sono succedute come eventi isolati, ma hanno tracciato una traiettoria comune, una linea interna che attraversa istituzioni, pratiche e linguaggi.

Il primo momento di condensazione di questa traiettoria coincide con l’arrivo al Tel Aviv Museum of Art della mostra What If Women Ruled the World di Judy Chicago,  aperta dal 18 settembre al 27 dicembre 2025. L’installazione partecipativa, fondata su una visione femminista storica e corale, ha riattivato l’utopia come strumento critico, ponendo domande radicali sul potere, sulla cura e sulle forme possibili del futuro. L’apertura della mostra ha suscitato reazioni intense nella scena locale, culminate in una chiamata al boicottaggio da parte di artisti israeliani e palestinesi che ne hanno messo in discussione il significato etico all’interno di un’istituzione nazionale in tempo di guerra. L’attrito non ha indebolito la mostra, ma ne ha rivelato la funzione più profonda: l’arte come spazio di visibilità del conflitto e di pensiero critico, più che luogo di consenso.

In continuità con questa tensione, senza riprodurne la dimensione simbolica, lo stesso museo presenterà il 6 gennaio 2026 l’installazione video Osservazione di Talya Lavie, presente nella Meshulam Riklis Hall. L’opera, della durata di 60 minuti, raccoglie dieci testimonianze di giovani donne che hanno prestato servizio come osservatrici militari lungo il confine con la Striscia di Gaza tra il 2016 e il 2024. Lavie evita strutture investigative o narrative convenzionali, privilegiando un dispositivo di ascolto rigoroso: i volti emergono isolati su fondo nero, mentre le voci si susseguono come un passaggio di turno nel tempo. Responsabilità, senso di colpa, amicizia ed empatia si intrecciano senza risoluzione, trasformando l’installazione in uno spazio etico più che rappresentativo. Qui l’arte non interpreta gli eventi, ma restituisce visibilità a soggettività normalmente escluse dallo sguardo pubblico.

Osservazione, Talya Lavie, Videoinstallazione, Tel Aviv Museum of Art 
Osservazione, Talya Lavie, Videoinstallazione, Tel Aviv Museum of Art 

All’interno dello stesso movimento di sottrazione alle letture immediate si colloca la mostra fotografica Malachia di Anne Simin Shitrit, curata da Sofia Berry, che sarà aperta dal 26 dicembre 2025 al 13 giugno 2026 nella Galleria di fotografia Doron Sebbag-ORS Ltd. La mostra presenta ritratti di giovani uomini sull’orlo della maturità provenienti da contesti che la lettura politica tenderebbe a separare: giovani affiliati alle frange del movimento "Hilltop Youth" nei pressi di Gerico compaiono accanto a giovani beduini della stessa area e a ragazzi delle montagne dell’Atlante marocchino. Shitrit trattiene deliberatamente le informazioni identificative convenzionali, interrompendo la possibilità di classificare i soggetti secondo categorie nazionali o etniche. I volti, ripresi con uno sguardo diretto e privo di mediazioni, oscillano tra bellezza e inquietudine, attrazione e pericolo. Il paesaggio desertico attraversa la mostra come matrice formativa, non come semplice sfondo: è uno spazio in cui l’identità prende forma prima di essere nominata. Il titolo Malachia introduce una doppia valenza strutturale: significa “il mio angelo” in ebraico e richiama l’ultimo profeta della Bibbia, simbolo di ammonimento. Così come nelle immagini convivono innocenza e minaccia, protezione e avvertimento.

Malachia, Anne Simin Shitrit, Fotografia, Galleria di fotografia Doron Sebbag-ORS Ltd
Malachia, Anne Simin Shitrit, Fotografia, Galleria di fotografia Doron Sebbag-ORS Ltd

Nel 2025 il Museo d’Arte Umm el-Fahem ha consolidato il suo ruolo come punto di riferimento per la cultura araba e palestinese in Israele, confermando che l’arte può essere pratica etica, memoria condivisa e strumento di dialogo interculturale. Fondato nel 1996 come galleria privata dai fratelli Said e Farid Abu Shakra e ufficialmente riconosciuto nel 2024, il 14 novembre ha inaugurato sei nuove mostre che hanno trasformato lo spazio in un luogo vivo di incontro tra comunità diverse. Tra le esposizioni, i paesaggi incisivi di Walid Abu Shakra, i dipinti identitari di Shy Abady, le opere di Sobhiya Hasan Qais sulla crisi a Gaza e i progetti video e tessili di Hamody Gannam, Ruth Kestenbaum Ben-Dov, Caron Tabb e Nahawand Jbaren hanno intrecciato narrazione personale, memoria storica e riflessione etica. In un anno segnato da conflitti, il museo ha dimostrato che l’arte può costituire una resistenza concreta alla semplificazione identitaria, diventando un ponte tra mondi e generando partecipazione e comprensione reciproca.

 Museo d’Arte Umm el-Fahem
 Museo d’Arte Umm el-Fahem

Nel loro insieme, queste esperienze non costituiscono un insieme disorganico di posizioni, ma delineano una linea continua di pensiero. L’arte in Israele nel 2025 si distingue come uno dei pochi ambiti in cui la complessità non viene semplificata, il conflitto non viene spettacolarizzato e l’identità non viene cristallizzata. La libertà creativa si manifesta come pratica concreta: la capacità di restare nella tensione senza cercare soluzioni immediate, di produrre immagini che non rassicurano, ma aprono spazi di riflessione.

In un tempo segnato dalla rigidità del linguaggio e dalla chiusura delle posizioni, l’arte continua a muoversi, non in avanti, ma in profondità.


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