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Gary Green e l’Eredità Silenziosa di Morandi

  • teodorare
  • 12 ott
  • Tempo di lettura: 3 min
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A Bologna, fino al 6 gennaio 2026,  nelle stanze silenziose di Casa Morandi, la mostra After Morandi di Gary Green, a cura di Steve Bisson si presenta come un incontro tra due modalità di vedere il mondo che, pur lontane nel tempo e nei mezzi espressivi, condividono una stessa radice etica: l’idea che la visione non sia un atto rapido, ma una pratica dello spirito. Green, fotografo americano dalla poesia discreta, docente e interprete raffinato della fotografia come esercizio meditativo, si avvicina a Morandi non attraverso l’imitazione, ma attraverso una prossimità intellettuale, un orientamento dello sguardo che riconosce nell’apparente semplicità degli oggetti un varco verso l’invisibile.

Il fotografo racconta di aver amato Morandi “da subito”, ma non per un’influenza diretta: ciò che lo ha attratto è stato il modo in cui il pittore bolognese ha trasformato il quotidiano in un territorio del pensiero, sospendendo bottiglie, ciotole, vasi in un tempo che non appartiene né al passato né al presente, ma a una forma interiore di durata. Nel 2014, durante una pausa sabbatica, Green arriva a Casa Morandi come a un luogo di pellegrinaggio; scatta poche fotografie, più come esercizi di ascolto che come necessità produttiva. Non è in quel momento, però, che avviene la rivelazione. È solo mesi dopo, ad Assisi prima e poi a Yaddo, negli Stati Uniti, che il fotografo riconosce ciò che davvero stava inseguendo: non l’Italia, non il paesaggio, non gli oggetti trovati e fotografati con cura ascetica, ma la qualità dello sguardo morandiano, la sua capacità di trasformare la materia in un silenzio eloquente.

In quelle piccole nature morte costruite con bottiglie, tegole e pietre, immerse nella luce naturale e sottratte a ogni teatralità, Green scopre che l’eredità di Morandi non è formale, ma percettiva. Non è uno stile, ma un atteggiamento. È la scelta di guardare il mondo come se tutto, persino il minimo, potesse rivelare un nucleo di verità. Da questa consapevolezza nasce After Morandi, libro pubblicato da L’Artiere nel 2016 e ora nucleo concettuale della mostra bolognese. Un libro definito da Green come un’“ode”: non un tributo illustrativo, ma un atto di riconoscimento verso una poetica dell’essenziale.

Green lavora per sottrazione. Le sue immagini non cercano di spiegare né di illustrare,  si limitano a essere. Gli oggetti, spogliati della loro identità funzionale, diventano ritmi, relazioni, sospensioni. La luce naturale è lingua e pensiero, non semplice condizione tecnica; misura le distanze, costruisce un tempo interno all’immagine, fa emergere una densità che non riguarda le cose ma il modo di percepirle. Il fotografo parla della propria pratica come di una “meditazione”, un'attesa, un ritorno, un tempo intermedio tra lo scatto e la stampa in cui l’immagine cresce, si chiarifica, si distilla. È in questo intervallo che si manifesta la parentela più profonda con Morandi, la consapevolezza che lo sguardo non è un atto immediato ma una lenta rivelazione.

La mostra a Casa Morandi assume così la forma di un dialogo silenzioso tra due sguardi che condividono una stessa inquietudine; quella di trovare un ordine nel caos, una forma nella complessità del reale, una misura nella fragilità dell’esistenza. Non è un esercizio nostalgico, né un tentativo di ricostruire un linguaggio del passato. È, semmai, la dimostrazione che l’eredità artistica non vive nella ripetizione, ma nella risonanza. Green non traduce Morandi, lo ascolta. E questa inclinazione all’ascolto diventa l’anima del progetto espositivo.

After Morandi, in fondo, è molto più di un omaggio. È un esercizio filosofico sullo sguardo, sulla percezione, sulla capacità dell’arte di trasformare il quotidiano in un’esperienza di rivelazione. È la conferma che, negli oggetti più semplici, si nasconde un’intera metafisica della visione e che solo un occhio paziente, come quello di Gary Green, sa ancora riconoscerla.


Redazione

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