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Oltre lo sguardo - la meditazione visiva di Guido Guidi.

  • teodorare
  • 7 nov
  • Tempo di lettura: 6 min
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Guido Guidi si staglia come una delle voci più profonde e pertinenti della fotografia contemporanea: non soltanto documenta, ma ramifica; non semplicemente registra, ma interroga. La sua opera — che attraversa oltre sette decenni — è un esperimento continuo sul tempo, sulla memoria e sulla percezione, temi che non appaiono come decorazione concettuale, ma come strutture fondamentali del suo sguardo. In Guidi, la fotografia diventa un linguaggio meditativo, una pratica ed esercizio del pensiero: uno spazio in cui passato e presente si intrecciano, in cui lo sguardo non è passivo ma attivo, non assorbe soltanto, ma restituisce senso. Il suo paesaggio — nelle campagne della Romagna, nelle periferie urbane, nell’architettura d’autore — non è sfondo ma soggetto silenzioso di una meditazione sul mutamento.

La sua formazione architettonica, la familiarità con la tradizione pittorica italiana non restano mere suggestioni storiche: diventano componenti vive e operative della sua visione. La luce e l’ombra, lo spazio e la materia, il disegno e il colore convivono in una tensione silenziosa che mira non tanto a rappresentare quanto a rivelare. Per Guidi, la tecnica non è strumento neutro: è forma di pensiero. La macchina fotografica non viene semplicemente usata, bensì abita una dialettica con lo sguardo, contribuendo a organizzare visione e riflessione.

Nel 2024 Guidi pubblica Col tempo, 1956 2024, (MACK/Micamera), volume che non si limita a documentare una carriera, ma ne estende l’articolazione teorica: una mappa visiva e concettuale della sua ricerca, che raccoglie serie storiche, lavori inediti, materiali d’archivio e riflessioni. Da questo libro prende forma la grande retrospettiva “Guido Guidi. Col tempo, 1956 2024”, a cura di Simona Antonacci, Pippo Ciorra e Antonello Frongia, inaugurata al MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma e oggi ospitata presso la Galleria Cavasin – Casa Cavazzini di Udine (fino al 6 gennaio), con previsione di tappe successive al Centre Pompidou di Parigi e al San Francisco Museum of Modern Art. La mostra si propone non soltanto di ripercorrere le tappe dell’autore, ma di attivare una riflessione sul gesto del vedere, sulla durata e sulla sedimentazione dell’immagine. L’allestimento riunisce — tra stampe, negativi, prove di stampa, appunti — un corpo organico e intimo del processo creativo di Guidi: l’archivio diviene officina, la fotografia si fa pensiero visivo. L’ordine cronologico si piega e lascia spazio a un ritmo interno, a un “tempo visivo” che pone lo spettatore in una relazione attiva con l’immagine — non solo il guardare, ma l’abitare dello sguardo.

In questo solco, l’incontro con Guidi assume il carattere di un dialogo sul senso del vedere, sul rapporto tra tecnica e intuizione, su ciò che resiste alla fretta visiva contemporanea. Figura cardine della fotografia italiana contemporanea, Guido Guidi incarna una poetica che intreccia rigore analitico e sensibilità poetica. La sua fotografia si fa atto di presenza e di pensiero, un lento esercizio di sguardo che restituisce al paesaggio la profondità del tempo e la densità della memoria.

 

INTERVISTA A GUIDO GUIDI

 

I.A.M.: Nel suo lavoro affiora una pazienza costante, un’attenzione rivolta ai dettagli marginali che insieme si traduce in un approccio fotografico lento, riflessivo e analitico. Un tale modo di osservare il paesaggio quotidiano – con questa intensità – le consente di cogliere aspetti che altrimenti ci sfuggirebbero. In che modo questa pratica di osservazione, tanto profonda quanto prolungata, ha influito sull’esito della sua arte?

G.G.: Anni fa, Umberto Eco, nelle sue famose Bustine di Minerva sull’Espresso, scrisse che quando andava in giro a fotografare, tornava a casa e non si ricordava nulla di ciò che aveva visto. Questo mi lasciò perplesso, perché la fotografia, come il disegno, è un modo per guardare meglio, per osservare con attenzione. Già nel Settecento, così come nell’Ottocento, pittori e artisti si recavano all’aperto con album e schizzi, registrando ciò che li circondava en plein air e dando vita agli études. Lento o veloce, dipende dal momento e dall’approccio: la conoscenza può essere rapida, ma solo attraverso la riflessione, quel tempo che dedichi a un soggetto, riesci a vedere qualcosa che prima ti era sfuggito. È come un premio, un frutto che matura con l’attesa.

I.A.M.: Quindi la conoscenza è veloce, ma la comprensione è lenta?

G.G.: La comprensione è lenta, nel senso che può durare una vita, ma poi, in un istante, improvvisamente, vedi ciò che prima ti era sfuggito, come se tutto si illuminasse di colpo. È un processo che attraversa il tempo, scivola via come sabbia tra le dita, per poi esplodere in un nuovo tipo di consapevolezza.

I.A.M.: Il contrasto fra luce e ombra nella sua fotografia dà vita a una narrazione visiva in cui il tempo non scorre semplicemente, ma si manifesta come elemento dinamico, carico di significati e trasformazioni. In quella vibrazione di chiaroscuri, le sue immagini non testimoniano soltanto la realtà, ma la rendono metafora della transitorietà. Come interpreta e riesce a restituire, attraverso la fotografia, non solo la forma fisica degli elementi, ma la loro essenza nel fluire del tempo?

G.G.: Il tema del tempo è stato una costante nella mia formazione, sin dai tempi in cui studiavo architettura. Si parlava spesso di "spazio e tempo", concetti che in architettura si fruiscono camminando, muovendosi attraverso il tempo e lo spazio. Questo pensiero ha influenzato profondamente il mio modo di vedere e di fotografare. Per me, il tempo non è solo un concetto astratto, ma una realtà che si manifesta in ogni momento che esploro. La mia formazione in architettura mi ha fatto riflettere su come lo spazio e il tempo si intersechino, e questo è stato un principio guida anche nella pittura, dove si parlava della “quarta dimensione”, che unisce fisicamente la dimensione spaziale a quella temporale.

I.A.M.: La macchina fotografica, oltre a servire come mezzo per catturare l’immagine, diviene nel suo lavoro una componente che definisce l’espressività. In che modo lo strumento tecnico ha condizionato il suo stile – non solo come mezzo ma come fattore attivo del linguaggio fotografico?

G.G.: La macchina fotografica è come il pennello per un pittore. Come il pennello di Velázquez è diverso da quello di un pittore inglese della stessa epoca, anche la macchina fotografica risponde in modo diverso, e questo ti condiziona. Purtroppo, molti fotografi e artisti snobbano la tecnica, ma non ha senso questo atteggiamento. Ognuno deve scegliere lo strumento giusto per il proprio lavoro. Se dovessi fare fotografie in movimento, per esempio, non userei una macchina lenta, ma una macchina che mi permetta di fermare il tempo. La tecnica non è mai un aspetto secondario.

I.A.M.: Lei possiede una visione olistica, è un filosofo e un artista. Nelle sue opere si intrecciano riferimenti alla fotografia e alla pittura, in un dialogo continuo tra tempo, spazio e percezione. Si avverte l’influenza di grandi fotografi del passato – come Walker Evans, ad esempio – che hanno indagato lo scorrere del tempo e la ricerca di un realismo essenziale. Allo stesso modo, la sua attenzione per la pittura medievale e proto-rinascimentale rivela un interesse per la rappresentazione dello spazio come esperienza interiore: quello “spazio vuoto” che diventa “presenza nell’assenza” e che, come la prospettiva nelle opere dell’epoca, rende visibile l’invisibile, dando forma a concetti misteriosi. È forse in questa tensione tra reale e invisibile che si radica la sua ricerca artistica?

G.G.: Nel tempo sono stato profondamente influenzato dalla pittura: Beato Angelico, Piero della Francesca, e soprattutto Mantegna e Giorgione. Durante gli anni del liceo mi sono appassionato alla pittura toscana e umbra, e più tardi a quella veneziana. Dal 1959 ho vissuto a Venezia, dove trascorrevo lunghe ore alla Galleria dell’Accademia. Così, da un lato, la mia formazione si è nutrita della chiarezza formale della pittura toscana, e dall’altro della profondità luminosa del colore veneziano. In seguito, il mio percorso mi ha condotto ad avvicinarmi alla pittura contemporanea e all’architettura — da Carlo Scarpa a Gerrit Rietveld, fino ad Alvar Aalto — e ho avuto anche l’onore di incontrare Le Corbusier. Anche la fotografia ha avuto per me un ruolo fondamentale: autori come Agnès Varda, Timothy O’Sullivan e altri hanno profondamente segnato il mio sguardo.

Negli ultimi decenni, tuttavia, si è diffusa una grande confusione nel mondo dell’arte, e uno degli slogan più ricorrenti è stato quello dell’“artista che usa la fotografia”. Ma che cos’è la fotografia, se non un linguaggio? È un linguaggio prima di essere qualcos’altro. E il linguaggio, in fondo, non si usa: è il linguaggio che usa te. Potrei dire lo stesso degli artisti che dipingono, o di coloro che praticano l’architettura.Inizio moduloFine modulo

I.A.M.: Quali criteri hanno guidato le sue scelte espositive nelle due tappe della mostra, a Roma e a Udine?

G.G.: La mostra è nata parallelamente al progetto del libro: i capitoli del volume si sono naturalmente trasformati nelle sezioni espositive. Non ho voluto seguire un criterio cronologico, ma costruire un percorso tematico, aperto allo sguardo e all’esperienza del visitatore. Inizialmente era previsto di presentarla a Milano, alla Triennale, ma quando è arrivata la proposta del MAXXI di Roma, ho deciso di accettarla. Ogni tappa della mostra si modella sul luogo che la accoglie, assorbendone le suggestioni e restituendole in una forma nuova. Nessuna tappa è uguale all’altra, perché anche la mia ricerca è un processo in divenire.

I.A.M.: Non ha mai pensato di portare la mostra a Venezia, considerando il suo legame profondo con la città?

G.G.: Venezia, purtroppo, continua a ignorarmi. Non mi ha mai riconosciuto la visibilità che meriterebbe un lavoro così profondamente radicato nel suo stesso contesto. Ma questo è un altro capitolo.  A dicembre tornerò a Udine, dove al Museo della Fotografia, nel Castello, è prevista una mostra di chiusura dell’anno, dedicata alla valorizzazione degli archivi del CRAF di Spilimbergo. Il 12 dicembre, sempre al Castello, inaugurerò una seconda esposizione, con un taglio diverso: un percorso dedicato al Veneto e al lavoro che ho sviluppato da Spilimbergo a Udine, Trieste e Gorizia.


Efthalia Rentetzi

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