Lucio Fontana a Venezia. L'Archetipo Incompiuto: Gesto Fittile e Crisi Spaziale
- teodorare
- 10 ott
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Aggiornamento: 4 nov

L'esposizione monografica dedicata alle opere in ceramica di Lucio Fontana (1899-1968), ospitata nel contesto della Collezione Peggy Guggenheim a Venezia dall’11 ottobre 2025 al 2 marzo 2026, si erige a momento epistemologico cruciale per la ridefinizione della parabola dello Spazialismo. Lontana dalla mera celebrazione del canone dei Tagli, la rassegna veneziana impone una rilettura dell'opera fontaniana attraverso il prisma della materialità primordiale, elevando l'argilla da medium ancillare a territorio privilegiato di speculazione formale e metafisica.
La mostra, incentrata sulla dialettica materica dell'artista, rivela una coerenza processuale che anticipa i gesti più iconici. Tradizionalmente, la critica ha identificato la radicalità di Fontana nel gesto performativo che lacera la tela, atto di negazione che apre la bidimensionalità alla promessa dell'infinito – il "concetto spaziale" oltre il supporto. Le ceramiche, al contrario, ripropongono l'artista nella sua veste originaria di scultore, evidenziando come l'urgenza di de-costruire e ri-plasmare lo spazio fosse già incardinata nella sua pratica tattile, ben prima degli Ambienti e dei celebri monocromi.
Nelle opere fittili esposte, si osserva la manifestazione di un "Ur-Gesto", una manipolazione violenta ma controllata della materia, che trascende l'artigianato per attingere a una dimensione tellurica e biologica. I corpi plastici, talvolta invetriati con sfarzo barocco, talaltra lasciati nella cruda opacità della terra, presentano superfici che si contorcono in buchi e fenditure organiche. Questo non è un esercizio figurativo o decorativo, ma un laboratorio fenomenologico in cui l'artista anticipa l'estetica della ferita e dell'espansione, trasferendo la tensione dall'illusione pittorica alla realtà ontologica del volume.
Il processo di "Mani-Fattura", sotteso all'intera produzione ceramica, sottolinea l'importanza dell'intervento diretto dell'artista, del corpo a corpo con la creta. In questo processo, Fontana accetta le condizioni temporali imposte dal medium – l'attesa dell'essiccazione, la metamorfosi del fuoco – integrando l'aleatorietà della natura nella propria sintassi creativa. La cottura, processo irreversibile, funge da atto finale di cristallizzazione, fissando l'energia dinamica e provvisoria del gesto in una forma eterna.
Il contesto veneziano, con la sua storia di fusione tra lusso orientale e rigore occidentale, e la sua topografia di continua negazione ed emergenza tra acqua e terra, si rivela un contrappunto critico ideale. Le sculture in terracotta, con le loro concavità e protuberanze, non solo occupano lo spazio museale, ma lo interrogano. Esse incarnano una dialettica spazio-tempo dove il concetto di limite – sia esso il bordo della tela o la superficie della scultura – è costantemente messo in discussione e superato in nome di una totalità spaziale post-cartesiana.
In conclusione, la mostra alla Guggenheim non è una parentesi esplicativa; è, piuttosto, un'epoché critica. Fornisce l'evidenza che la celebre opera matura di Fontana non è nata ex nihilo, ma è stata l'esito di una meditazione trentennale sul volume, sulla superficie e sull'inclusione dello spazio come entità fisica e metaforica. Riaffermando la coerenza tra il figurativismo espressionista delle prime ceramiche e l'astrazione radicale dei successivi Tagli, l'esposizione invita l'osservatore intellettuale a riconoscere in Fontana non un artista diviso, ma un unico pensatore che ha utilizzato la materia più umile e la superficie più nobile per un identico obiettivo: aprire una breccia nel muro della convenzione pittorica e scultorea per svelare l'Infinito come dato sensibile. La ceramica, in tal senso, è la sua matrice filosofica.
Efthalia Rentetzi















